Cinema & Alimentazione Vol. 1

“Il cinema è un fetta di torta, non una fetta di vita” (Alfred Hitchcock)


Il 28 dicembre 1895, nella prima proiezione pubblica della storia, i fratelli Lumière inserirono anche il rullo “Le dejeuner de bébé”, scena di vita familiare dove un piccolo Lumière veniva imboccato dagli amorevoli genitori. Pochi anni dopo, nella “Sorcellerie culinaire” del 1904, il regista Meliès mostra uno chef che sta preparando piatti prelibati che attirano un mendicante e che viene scacciato in malo modo. Il mendicante si rivelerà un mago che trasforma la cucina in palestra per le sue stregonerie e per i trucchi creati dal grande Meliès. Un’invasione di diavoli chiuderà la sequenza con tanto di chef scaraventato nella pentola. In principio, quindi, era il cibo. Il cinema ha già esposto, quasi programmaticamente, le due principali “vie” in cui si dividerà lungo il suo ultracentenario cammino: il realismo e la fantasia e in tutte e due le vie il cibo si era già “piazzato” ai primi posti. Sia nel primo caso, come specchio della quotidianità della vita umana, sia nel secondo, come occasione per “dire altro”, come simbolo, più o meno spettacolare; ecco che il cibo ha sin dall’inizio un ruolo di primo piano nei percorsi del cinema.

L’occhio di molti cineasti ha saputo cogliere gli aspetti della cucina che si possono chiamare senza riserva METAFORICI, SOCIALI E SPIRITUALI.

Sono moltissime le possibili catalogazioni che si possono fare nell’ordinare il gran numero di film Bostancı Escort che trattano, più o meno direttamente, il tema del cibo. Si potrebbe evidenziare il legame tra cibo e identità nazionale, per vedere, per esempio, come la cucina al cinema sia soprattutto francese o italiana (e ultimamente anche cinese). Il cibo è un meccanismo che rivela l’identità etnica, culturale e sociale. Si pensi al film come: “Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi d’Europa” (1978) un film di Ted Kotcheff con Jacqueline Bisset, Philippe Noiret, “Una domenica in campagna” (1995) con Bertrand Tavernier, “L’appartamento” (1960) con Billy Wilder, “Tampopo” (1986) di Juzo Itami (Tampopo è il nome di una vedova proprietaria di un posto di ristoro in cui si cucinano i “ramen” – spaghetti giapponesi), “Banchetto di nozze” (1993) di Ang Lee, il film francese La graine et le mulet (il grano e il mulo) di Abdellatif Kechiche inevitabilmente banalizzato nella traduzione italiana in “Cous Cous” presentato a venezia nel 2007.
Un uomo vuole realizzare un sogno: ristrutturare una vecchia imbarcazione e trasformarla in un ristorante in cui proporre come piatto forte il cuscus al pesce. Nonostante le difficoltà economiche Beiji trova l’aiuto di tutti i familiari e l’impresa pare destinata al successo. Il regista parla degli arabo-francesi integrati da decenni nella società dell’area marsigliese ma comunque, in qualche misura, visti sempre come ‘diversi’. C’è in questo film, la voglia di raccontare le dinamiche familiari in un ambito in cui gli uomini pongono problemi ma non li risolvono. Sono le donne, pur con le loro invidie reciproche e le frustrazioni più o meno espresse, a prendere in mano le situazioni anche nei momenti di maggiore crisi cercando una via d’uscita, talvolta traumatica e talaltra propositiva.
Nello sguardo del protagonista si può leggere un’intera vita fatta di lavoro, un passato che però non conta più nulla dinanzi ai nuovi ritmi produttivi e alle esigenze del ‘mercato’. Ma non vuole, come gli suggerisce il suo capo, ‘avere più tempo per i nipotini’ (che pure adora). Vuole sentirsi un uomo che ha ancora da dare qualcosa alla società. Il cous cous potrebbe essere la soluzione.

Si potrebbe sottolineare il legame tra cibo e identità familiare, dove c’è la famiglia “normale” con i suoi rituali allora avremo film come “Big Night” (1996) di Stanley Tucci, “Fanny e Alexander” (1981) di Ingmar Bergman, “I morti” (1987) di John Huston dove un pranzo post-natalizio nell’Irlanda del 1904 tra amici della buona società di Dublino – con oche arrosto, canti e discorsetti – sfocia in una inaspettata rivelazione e in una tormentata analisi delle varietà dell’amore, “Il gattopardo” (1963), “Avalon” (1990) di Barry Levinson, “Parenti serpenti” (1992) di Mario Monicelli che ha in copertina proprio un piatto di spaghetti che sembrano serpenti. Monicelli porta fino alle estreme conseguenze il suo discorso sulla famiglia: quella piccolo borghese è qui ferocemente ritratta in tutti i suoi vizi e meschinità e tutto si svolge durante la cena della vigilia di natale, “Dicembre” (1990) di antonio Monda, “A casa per le vacanze” (1995) e “La Famiglia”, e allora avremo film come “Quei bravi ragazzi” (1990), “C’era una volta in America” (1984), e, ovviamente, i tre episodi della saga del Padrino. In particolare in questa trilogia il cibo compare ripetutamente, a volte come “contorno” alla violenza dei mafiosi (“Lascia la pistola e prendi i cannoli” ordina al giovane “picciotto” il grasso Clemenza, vecchio amico di Don Vito, dopo che ha ucciso il traditore Paulie), come strumento diretto di morte (sempre i cannoli, questa volta avvelenati nel terzo episodio), infine come veicolo della memoria di un’età dell’innocenza (nel finale del secondo episodio, quando Michael, nuovo padrino ricorda l’arrivo a casa del padre festeggiato da una grande cassata).

Continua…
Daniele Bracuto

 Le Dejenuer du Bebe
“Le dejeuner de bébé” (1895) dei Fratelli Lumière

 

“Sorcellerie Culinaire” (1904)  di Georges Meliès 

cous cous
Cous Cous (2017)  di Adbellatif Kechiche


“Il Padrino” (1972) di Francis Ford Coppola