DOGMAN di Matteo Garrone
Gli fa del male, si vendica ma poi cerca di curargli le ferite da lui stesso procurate.
È un uomo mite e tollerante Marcello, subisce offese pur di non farne: va persino in galera pur di non tradire quell’amico anomalo, malato di forza e di cocaina. È un rapporto a due questo capolavoro di Matteo Garrone, “Dogman”, ispirato a fatti di cronaca nera di trent’anni fa nella periferia degradata della capitale. E su un luogo simile ritorna il regista per un nuovo “Reality” o piuttosto per una nuova fiaba noir da “Cunto de li cunt” (che celebra Gianbattista Basile nel suo precedente film).
È tuttavia un film cristologico questo suo lancinante viaggio negli inferi di un uomo che ama e cura i suoi cani in maniera francescana (è il suo lavoro), che adora sua figlia (da separato) e con lei viaggia su internet per una vacanza lontana che mai avverrà; e con lei fa sport nei fondali del mare, quasi a nascondersi o a cercare un tepore paterno che la realtà non sa offrirgli. Marcello compie persino il miracolo di ridare vita ad un cane assiderato; ama e non sa odiare il peggiore degli esseri viventi, quell’ex pugile Simone che terrorizza il quartiere: forse di lui nutre più pietà che paura in una complice tolleranza; ma alla fine porterà sulle spalle come su un calvario che non gli darà redenzione.
Il gracile Marcello mantiene una natura umana e divina, ma terrena fino alla violenza più inaudita: è un “cane di paglia”, nel senso dello Straw Dogs che Sam Peckinpah girò nel 1971 (con un prodigioso Dustin Hoffman). Così recita il Tao te Ching: “Il Cielo e la Terra non usano carità, tengono le diecimila creature per cani di paglia. Il santo non usa carità, tiene i cento cognomi per cani di paglia”. Il male è ritratto in una soggettiva asfissiante, quasi sempre in ombra: è Edoardo Pesce, volto superbo da Romanzo criminale; mentre la luce livida che ritrae Marcello effonde gioia e sofferenza, in un contesto di miseria urbana che circonda quelle vite condannate.
La fotografia di Nicolaj Bruel è dunque calibrata su una sceneggiatura pressoché compiuta, scritta dal regista insieme ad Ugo Chiti e Massimo Gaudioso. Il protagonista è Macello Fonte, un minuto attore ancorché sconosciuto che viene dal teatro: ha appena ricevuto a Cannes la Palma d’oro quale miglior attore della competizione presieduta da Kate Blanchett. Sarà degli ultimi il regno dei Cieli.
Daniele Bracuto